Lord Byron

Il Pellegrinaggio del Giovane Aroldo

Canto III

LXXII

Non vivo in me stesso, ma divengo
parte di ciò che mi circonda; e per me,
i monti elevati sono un sentimento, ma il brusio
delle città umane una tortura: vedo
nulla di odioso nella natura, eccetto
l’essere una maglia riluttante di una catena carnale,
tra le creature collocato, quando l’anima può fuggire,
e con il cielo, le vette, l’ansante pianura
dell’oceano, o delle stelle, può unirsi, e non invano.

LXXIII

E così vengo assorbito, e questa è la vita:
guardo il popoloso deserto che mi lasciai dietro,
come un luogo di conflitto e di agonia,
dove per qualche peccato, fui al Dolore consegnato,
per agire e soffrire, ma risalire infine
con un’ala nuova; la sento spuntare,
benché giovane, in crescendo vigoroso come la bufera
con cui vorrebbe lottare, nell’incanto del volo,
respingendo i legami di argilla fredda che aderiscono al nostro essere.

LXXIV

E quando, alla fine, la mente sarà libera compiutamente
da ciò che odia in questa degradata forma,
rapita alla sua vita carnale, eccetto ciò che
più felice esisterà nel verme e nella mosca,
quando elementi a elementi si conformeranno,
e la polvere sarà ciò che dovrebbe essere, non sentirò
e vedrò tutto ciò, meno abbagliante ma più caloroso?
L’incorporeo pensiero? Lo Spirito di ogni luogo?
Del quale, persino ora, a volte condivido il destino immortale?

CX

Italia! Italia! se guardo anche te,
in tutta la sua potenza lampeggia nell’anima la luce delle età,
da quando il feroce Cartaginese stava per conquistarti,
fino all’aura estrema dei principi e dei saggi,
che glorificano le tue pagine consacrate;
tu fosti il trono e la tomba d’imperi; ma anche
la fonte a cui la mente infocata lenisce
la sua sete di conoscenza, bevendo a sazietà,
scorre dall’eterna fonte del colle romano imperiale.

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