John Keats
La Vigilia di Sant’Agnese
XXIV
V’era un’alta finestra a triplice arco,
tutta inghirlandata d’intagliate fantasie
di frutta e fiori e mazzetti di cento nodo,
e con rombi di vetro in raro stile,
con innumerevoli macchie e tinte splendide,
come sono le oscure damascate ali de la farfalla caia,
e nel mezzo, fra mille segni araldici,
e santi a tinte lievi, e offuscate insegne,
istoriato uno scudo rosseggiava pel sangue di regine e di re.
XXV
Piena su questa finestra splendeva l’invernale luna,
e gettava calde rosse tinte sul bel seno di Maddalena,
mentre in ginocchio pregava per la grazia e i doni del cielo;
il colore de la rosa cadea su le mani insieme congiunte,
e su la sua argentea croce soave ametista,
e su’ suoi capelli una gloria, come di santa:
ella, parea un angelo splendido, appena approntato,
fuor che l’ali, pel cielo: - Porfiro illanguidì:
ella così inginocchiata, era cosa tanto pura, tanto immune da macchia mortale.
XXVI
Presto il cuore del giovane si ravviva: detti i vespri,
da tutte le intrecciate perle le chiome ella scioglie;
sfibbia i suoi riscaldati gioielli uno per uno;
e dislaccia il corpetto fragrante; lentamente
la ricca veste scivola frusciando a’ suoi ginocchi:
semicelata come una sirena fra l’alghe del mare,
pensosa rimane e desta sogna, e vede,
con la fantasia, la bionda Sant’Agnese nel suo letto,
ma non osa volgersi indietro, altrimenti tutto l’incanto svanirebbe
XXVII
Tosto, tremando nel suo soffice e gelido nido,
in una specie di desto svenimento, perplessa ella giacque,
fin che l’oppiato tepore del sonno non oppresse
con la sua dolcezza le sue membra, e l’anima affaticata,
fuggita, come un pensiero, fino al giorno seguente,
beatamente difesa dal dolore e da la gioia insieme,
chiusa come un messale su cui i negri Pagani pregano,
resa cieca insieme a la luce del sole e de la pioggia,
come se una rosa si chiudesse e divenisse un boccio ancora.
XXVIII
Giunta furtiva a questo paradiso, e così estasiato,
Porfiro affisò le vuote vesti,
ed ascoltò il respiro se mai avvenisse
che si destasse in una sonnolente tenerezza,
e quando la udì, ei benedisse quell’istante
e respirò: poi uscì dal suo nascondiglio
silenzioso come la paura in un vasto deserto,
e sul tacito tappeto, silente ei venne,
e fra le cortine fe’ capolino, ove, mira! – come profondamente ella dorme.
XXIX
Indi accanto al letto, ove la pallida luna
faceva un tenue argento crepuscolo, piano ei pose
una tavola, e quasi vinto dall’ansia, gettò su di essa
una covertura d’intessuto cremisi, oro e giavazzo: –
oh avere un sonnifero amuleto di Morfeo!
Il tumultuoso chiarino de la notturna festa,
il timballo e il clarinetto che spande lontano la voce,
spaventano il suo orecchio, benché in morente concento:
la porta del vestibolo si chiude ancora, e tutto il frastuono è finito.
XXX
Ed ella ancora dormì un dolce sonno fra l’azzurre sue palpebre,
fra i bianchi lini, lisci e di lavanda fragranti,
mentr’egli dal suo nascondiglio portò fuori un mucchio
di mele e cotogne e zucca e susine candite
con gelatine più gustose che il cremoso latte rappreso,
e limpidi sciroppi tinti con cinnamomo,
manna e datteri, su navi trasportati
da Fez, e tutte le drogate cose squisite che si trovano
da la serica Samarcanda fino al cedrifero Libano.
giù per l’ampie scale una buia via essi trovarono, -
in tutta la casa non fu udito suono umano.
Una lampa a una catena pendula guizzava ad ogni porta,
gli arazzi, ricchi di cavalieri, di falchi e di segugi,
fluttuavano ne l’assediante tumultuare del vento,
ed i lunghi tappeti si sollevavano lungo il ventoso suolo.
Essi trascorrono, come fantasmi, ne l’ampio atrio,
come fantasmi, al portico di ferro, essi trascorrono,
ove giacea il custode, in incomoda postura,
con una larga e vuota boccia a lui d’accanto;
il vegliante cane di guardia si levò, e scosse la sua cute,
ma l’occhio sagace uno de la casa lo riconosce:
uno per uno i chiavistelli agevolmente scorrono,-
le catene giacciono silenti su le pietre da i passi consunte,-
la chiave gira, e la porta su i cardini stride.